Disporre di un potere non è condizione sufficiente per il suo legittimo esercizio

In molte occasioni dobbiamo comportarci seguendo delle regole scritte. La ragione, il motivo della regola a volte non è espresso nella regola stessa eppure c’è e dobbiamo conoscerlo e rispettarlo.


Per esempio, nello sport.

In una partita di football americano, l’allenatore ha la facoltà, una volta per tempo, di invitare l’arbitro al controllo dell’azione, in gergo di chiamare “il check”. La ragione è chiara, si vuole garantire il più possibile la regolarità delle decisioni sulle azioni della partita.

Per l’allenatore nell’occasione è necessario perdere tempo nei minuti finali della partita per far vincere la sua squadra. L’allenatore, così, chiama “il check”. L’azione è regolare, la decisione dell’arbitro è chiara e giusta ma l’allenatore interrompe il gioco per avvantaggiare la sua squadra, non per controllare realmente l’operato dell’arbitro. L’allenatore, infatti, agisce sul presupposto che dalla ripresa dalla partita alla fine potrà interrompere il gioco ancora una volta, chiamando l’ultimo time out rimasto a sua disposizione. L’arbitro a quel punto si accorge della condotta scorretta e punisce la squadra per comportamento antisportivo, togliendo loro la possibilità di esercitare l’ultimo time out rimasto a disposizione. La partita così si svolge regolarmente senza altre interruzioni.

A fine partita iniziano le polemiche dell’allenatore che sostiene di aver esercitato un diritto, previsto in una precisa regola del regolamento. Eppure è stato sanzionato. Perché, quindi, la sua squadra è stata sanzionata se il suo agire è apparentemente conforme alla regola del “check”?

Perché ha abusato del suo diritto. 

Quando, infatti, si perseguono obiettivi diversi rispetto a quelli della regola, o ai principi dell’ordinamento sportivo del football americano, l’ordinamento prevede una sanzione.

Ciò accade nell’ordinamento sportivo.

Ma accade per esempio nell’ordinamento civile italiano e in quali occasioni?

Nel nostro Codice, diversamente che in altri paesi europei, non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto, nonostante nel progetto preliminare del codice civile fosse prevista. Ciò in quanto si sono preferite norme specifiche ad una norma di carattere generale. Tali norme consentono di sanzionare l’abuso solamente in relazione ad alcune categorie di diritti.

Per capire meglio.

A qualcuno di noi, per esempio, è capitato di subire il recesso arbitrario di una banca dal rapporto di apertura di credito o di un’impresa d’assicurazioni dal rapporto assicurativo. E’ capitato di subire una decisione societaria che ha avvantaggiato ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza. Ed ancora, è capitato di non godere più della vista del mare perché il vicino ha costruito un muro di confine straordinariamente alto con l’unica finalità di privarci della veduta.

Ora, in questi casi, o meglio, nei casi in cui non vi sia una norma specifica che sanzioni l’abuso del diritto, è possibile ugualmente opporsi a ciò che ci è accaduto?

activity-board-game-connection-613508.jpg

Naturalmente, un problema / argomento così importante è stato oggetto di ampia e rimedidata attenzione da parte della giurisprudenza di legittimità. La Corte di Cassazione ha utilizzato le norme costituzionali come “base giuridica” su cui fondare il riconoscimento immediato di una regola da applicare nei rapporti obbligatori e non solo (Cass., sez. III civ., sent. 18/09/2009 n. 20106). In forza dell’opera della Suprema Corte si è pacificamente riconosciuto il generale principio di solidarietà sociale, inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2. della Costituzione. Tale principio impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

Dal generale principio di solidarietà sociale deriva l’obbligo di buona fede, che costituisce autonomo dovere giuridico.

In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto in ogni sua fase, dalla formazione all’ interpretazione. Il dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza è operante tanto sul piano del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175, cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). In questa prospettiva si è affermato che il criterio della buona fede costituisce strumento per il giudice atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, il singolo contratto, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.

In sintesi, disporre di un diritto non è condizione sufficiente per il suo legittimo esercizio se la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi in modo più proporzionato.  La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio.

Criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede è quello dell’abuso del diritto. Come conseguenza dell’eventuale abuso, l’ordinamento rifiuta la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole d’esercizio. Il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a chiunque ne sia portatore, sconfini nell’arbitrio. La regola generale della buona fede è stata utilizzata, anche nell’ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per esempio gli abusi di posizione dominante.

Tale regola è indispensabile anche per qualificare l’abuso del diritto nell’ipotesi di dipendenza economica dell’impresa debole dall’impresa forte. A tal riguardo si sottolinea che è presente nell’ordinamento in materia di subfornitura una norma specifica, l’art. 9 della L. 192/1998, che vieta l’abuso, da parte di una o più imprese, dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi e nei loro riguardi, un’impresa cliente o fornitrice.

La norma in questione è finalizzata a tutelare la correttezza e la buona fede nei rapporti commerciali tra imprese e vietare l’abuso del diritto. Tale norma, anche alla luce dei principi esposti, è generalmente applicabile a tutti i rapporti di collaborazione tra imprese. Invero, l’abuso di dipendenza economica è stato ritenuto configurabile, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nella concessione di vendita, nel franchising, nella vendita, nell’ appalto, nel trasporto, nella logistica, ecc. La dipendenza economica si manifesta quando un’impresa è in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. Il criterio giurisprudenziale per ravvisare la dipendenza economica va indentificato nell’impossibilità di reperire delle alternative soddisfacenti.

In tali casi, come in ogni ipotesi di abuso del diritto, l’autorità giudiziaria potrà valutare se l’esercizio della facoltà riconosciuta all’autonomia privata abbia operato in chiave elusiva dei principi espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza. A tal fine, dovrà tenere in considerazione le posizioni delle parti, per valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell’altra siano stati forieri di comportamenti abusivi. L’autorità giudiziaria, conseguentemente, controllerà ed interpreterà, anche in senso modificativo od integrativo, l’atto di autonomia privata, in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.


Renzo Di Gregorio

Athena Founding partner and Director

sportAthena Staff